Al voto senza Rete

Al voto senza Rete

20/02/2013 – Dovevano essere le elezioni di Internet, sono state quelle della tv e – chi se lo aspettava? – della piazza. Fenomenologia di un flop tutt’altro che annunciato.
Al voto senza Rete
 

Doveva essere la campagna elettorale della Rete, quella dei social network e dei video virali, delle killer app e dei Big Data, sì proprio quelli che hanno sospinto di nuovo Barack Obama dentro la Casa Bianca. E invece.

Ma non perché, al solito, siamo chissà quanti anni luce dall’America digitale, che un po’ è così, certo, ma insomma, informazioni e best practices circolano velocemente, e tanta gente smarte in gamba ce l’abbiamo anche dalle nostre parti. Neanche hanno vinto la campagna elettorale di Obama che i guru americani già erano negli uffici di Mario Monti, così come imaghetti digitali che gestivano Narwhal (il programma della mobilitazione online democratica) non appena riconquistato l’Oval Office, sono subito venuti in tournée in Italia.

E allora non sarà il fuso orario a giustificare il fatto che questa nostra campagna elettorale, a pochi giorni ormai dalla chiusura, è stata più che deludente, quasi un flop dal punto di vista di Internet.

Rispetto alle attese, intanto. Sollevate, ad esempio, dalla prometeica stagione delle amministrative di Pisapia, che sembravano promettere un’era in cui il cambiamento politico viene non solo anticipato, ma accompagnato e finalizzato online, grazie alle ironie su Twitter, agli hashtag da passarsi come un gioco collettivo, ai virali per sbertucciare l’avversario o sciogliersi nell’abbraccio identitario.

Il combinato disposto delle potenzialità espresse a Milano e la consapevole attenzione baluginata attorno al voto americano, confidando per di più in un settore, quello della comunicazione politico-elettorale che anche in Italia si è andato via via professionalizzando, lasciava presagire un ruolo da protagonista per Internet in questa campagna. Tanto più che, solo qualche settimana fa, le primarie del centrosinistra si erano rivelate un formidabile moltiplicatore di consenso e passione civile, anche attraverso la Rete, nel gioco di specchi con la televisione, in particolare sui social media.

Poi, certo, c’è Grillo, quasi una metafora per Internet e la politica, non solo da noi, ci si sarebbe aspettati una spinta decisiva in quella direzione, e tutti a inseguire dietro. Siamo finiti a una rincorsa, sì, ma a scendere in piazza però, per il caro, vecchio comizio, tutti a cercare il bagno di folla, il giro sul territorio, proprio quello che, all’inizio di questa tornata elettorale, sembrava al massimo una madeleine per programmi tv geniali come La Superstoria di Andrea Salerno.

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Dei tanti momenti topici di questa corsa, dalla spazzolata della sedia di Berlusconi da Santoro al cane Empy di Monti dalla Bignardi, dalla smacchiatura del giaguaro di Bersani alla parodia di Ingroia di Crozza, non ce n’è stato uno che sia stato puramente e nitidamente tutto della Rete. Che, al massimo, si è ritagliata il ruolo di potente, potentissima cassa di risonanza e influente circolo del whistle, gregario, tuttavia, rispetto alla televisione e adesso, addirittura, nei confronti della piazza.

Piazza che viene seguita in streaming, certo, come ovviamente non c’è candidato, leader o scalcagnato, che non si sia dotato di profilo Twitter, spot su YouTube (anche qui, poca, davvero poca originalità), blog di campagna. Si dirà: ma come, si parla ogni minuto del fact-checking e, appunto, di Big Data, addirittura i partiti si sono dotati di strumenti ad hoc, di war room digitali, di combattivi Spartani che hanno chiamato a raccolta, per gli ultimi giorni di campagna, i responsabili social media dei partiti “fratelli” in giro per l’Europa?

E, in effetti, si sono moltiplicate professionalità e competenze, alcuni case-studies, come ad esempio lo stesso Fermare il declino, prima della grana del master, sembravano dimostrare che si può costruire una credibilità digitale con intelligenza e un pizzico di spregiudicatezza. I democratici hanno finora tenuto una linea di comunicazione online ben assestata, in particolare sul sito; il PdL, che pure punta quasi tutto sulla televisione, si è affidato a un professionista del ramo come Antonio Palmieri; lo stesso vale per il movimento di Ingroia e il lavoro svolto da Stefano Epifani, senza parlare della chimica tra Casaleggio e Grillo o alla trazione americana della campagna di Monti.

Ma, semplicemente, non è qui che si è giocato il voto. Abbiamo per la prima volta unoscanning permanente di tutto quello che dicono i candidati che vengono sbugiardati in tempo reale, come quando sognavamo gli Usa. Abbiamo infografiche raffinatissime, enormi quantità di dati offerti da tutti i player – partiti, media (da ultimo Tycho, voluto da Gianni Riotta), elettori – per consentirci raffronti, fornirci strumenti, immaginare scenari. Ma non è la Rete il medium di questo 24 e 25 febbraio.

Abbiamo fatto fiasco, insomma, tutti noi che un po’ ci avevamo creduto e un po’, comunque, ancora ci crediamo? Simone Spetia, giornalista di Radio 24 che osserva dal di dentro il cortocircuito tra media e web non è convinto della provocazione: “Non mi sentirei di dire che è stato un flop. Certo, scontiamo un uso ancora medievale della rete, il comunicatificio, ma abbiamo altrettante persone provenienti dalla famosa società civile il cui innesto in questa campagna elettorale è stato significativo, io ad esempio mi sono trovato mezza timeline candidata”.

Il punto, al di là di quanto si sia parlato di temi benchmark tipo la celebre “agenda digitale”, è quello della misurabilità. La tecnologia consente di misurare, anzi impone di farlo, è questo il comandamento dei guru di Obama. Ma l’impatto effettivo di questi numeri, in termini di consenso, al netto della circolazione delle informazioni e dei messaggi, resta fuori campo. “La gente i suoi pregiudizi se li tiene cari”, sottolinea Spetia che ipotizza come forse la Rete dia il meglio nell’attivismo, nella mobilitazione one-issue come ad esempio i referendum, piuttosto che in un contesto giocoforza più tradizionale, nonostante tutto, come quello delle politiche nazionali.

Fonte: europaquotidiano.it | Autore: Filippo Sensi

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