Cosa va e non va nella proposta di Renzi

Cosa va e non va nella proposta di Renzi

24/01/2014 – Più che un punto di arrivo, l’accordo tra Renzi e Berlusconi sulla riforma della legge elettorale sembra essere un punto di partenza. La proposta non risolve appieno i vecchi nodi: premio di maggioranza, liste bloccate e soglie di sbarramento. Il sistema delle garanzie e la questione del Senato.

I VECCHI PROBLEMI

Il testo base per la riforma elettorale frutto dell’incontro Silvio Berlusconi- Matteo Renzi è ufficialmente depositato, quindi si può sviluppare un ragionamento basato più sui fatti e meno sulle impressioni. Per un giudizio meditato è metodologicamente serio partire da quanto veniva quasi unanimemente criticato nella normativa precedente (legge 270/2005) e in buona parte rilevato anche dalla recente sentenza della Corte costituzionale che ne ha cassato alcuni punti fondamentali.

1. Un premio di maggioranza ritenuto incongruo perché troppo ampio e senza un quorum minimo per la sua attivazione (quorum che era presente non solo nella “legge truffa” del 1953, ma addirittura nella “legge Acerbo” del 1923, che prevedeva il raggiungimento del 25 per cento dei voti).
2. Un combinato disposto di riparto dei seggi su base nazionale e liste bloccate “lunghe” che hanno reso impossibile all’elettore influire in qualche modo sulla composizione dell’assemblea, anche a causa del meccanismo delle candidature in più circoscrizioni e successivi subentri.
3. La presenza di soglie di sbarramento plurime con incentivi all’apparentamento, che hanno concorso a costruire coalizioni artificiali, fondate più sulla volontà di conseguire il premio che su una effettiva coesione politica e programmatica.
4. Una indicazione del “capo della coalizione” in contraddizione con l’articolo 92 della Costituzione, sulla quale però non esiste formale parere della Corte perché questo aspetto non era compreso tra i punti del ricorso oggetto della sentenza.
5. Il rischio di maggioranze diverse tra Camera e Senato, considerato anche il vincolo costituzionale dell’elezione del secondo “su base regionale” e la diversa base di elettorato attivo.

UNA PROPOSTA DA MIGLIORARE

Come notato anche da Paolo Balduzzi e Massimo Bordignon nel loro contributo , il testo della proposta di riforma mantiene i difetti dei primi tre punti, non influisce sul quarto e rimanda il quinto alla riforma costituzionale. Infatti leggendo nel dettaglio, si nota che:

a) il premio di maggioranza scatterebbe al 35 per cento, con ballottaggio nel caso in cui nessuna forza politica raggiunga tale soglia. Quindi un premio del 18 per cento se va bene e molto più elevato se va male, grazie al meccanismo del ballottaggio al quale – nel 2013 – sarebbero state ammesse due coalizioni nessuna delle quali capace di raggiungere il 30 per cento dei voti al primo turno;
b) le liste sono ancora bloccate, anche se più corte (tre-sei eligendi). Ma poiché si mantiene un riparto su base nazionale con quozienti interi e più alti resti, rimane impossibile garantire la scelta dell’eletto da parte dell’elettore, così come assicurare un adeguato equilibrio territoriale. Si replica che “si faranno le primarie”, ma queste sono una mera conta interna ai partiti, non un modo per rilegittimare in chiave sistemica il rapporto tra classe politica e comunità;
c) rimangono gli sbarramenti plurimi e l’incentivo a creare coalizioni eterogenee al solo scopo di abbassare il “costo” di accesso al Parlamento, considerata anche la soglia – assurdamente alta – da superare per i partiti non apparentati, fissata all’8 per cento: con i dati 2013 significa circa 3 milioni di voti nazionali.
d) per i cittadini residenti in Trentino Alto Adige e Valle d’Aosta rimangono i vecchi collegi uninominali al fine di garantire una rappresentanza delle minoranze linguistiche. Questo però li esclude dal determinare la coalizione vincente, tagliandoli così fuori dalla scelta del Governo.
La proposta potrebbe essere migliorata facilmente con pochi ritocchi, rendendola meno contraddittoria negli strumenti e meno “borderline” per quanto riguarda la legittimità costituzionale. Sarebbe sufficiente elevare la soglia per il conseguimento del premio al 40 per cento; sostituire le liste bloccate con collegi uninominali da attribuirsi con un riparto proporzionale su base circoscrizionale, così da evitare il problema dei resti e garantire l’equilibrio territoriale (non è difficile, è il sistema in vigore per l’elezione dei consigli provinciali e fu quello utilizzato per il Senato dal 1948 al 1994). Infine, lo sbarramento, che dovrebbe essere il medesimo a prescindere dalla partecipazione o meno a coalizioni.
Rimarrebbe molto da dire sul sistema elettorale del Senato, che non può essere con premio e riparto nazionale (l’articolo 57 della Costituzione prevede il “riparto su base regionale”) e, soprattutto, riesce difficile immaginare la “soppressione” pura e semplice della seconda Camera e la sua sostituzione con una indefinita “Camera delle autonomie” la cui composizione, poteri, modalità di elezione è ancora tutta da verificare.

GARANZIE DA TUTELARE

Nel caso in cui la riforma dovesse però andare in porto anche nella sua dimensione costituzionale (cioè l’abrogazione-ridimensionamento del Senato) si apre un tema oggi ignorato nel dibattito, ma di importanza centrale: quello del rafforzamento del sistema delle garanzie e dei checks and balances istituzionali.
In nessuna grande democrazia dove le competizioni hanno esito maggioritario esiste un capo dello Stato “garante” eletto dal Parlamento. Regno Unito e Spagna sono monarchie (così come Canada e Australia), Francia e Stati Uniti hanno un presidente eletto direttamente dal popolo e la Germania per eleggere il presidente federale crea un’assemblea ad hoc composta in via paritaria dai membri del Bundestag e da delegati regionali (un’assemblea di 1.200 persone, che si scioglie dopo aver adempiuto al suo compito). E quindi abolire o ridimensionare fortemente il Senato prevede anche un ritocco alle modalità di elezione del Presidente della Repubblica e degli altri organi di garanzia eletti dal Parlamento in seduta comune: Corte Costituzionale e Consiglio superiore della magistratura, considerato che la nostra Costituzione, in tutti i suoi equilibri formalizzati, mostra in filigrana il sistema proporzionale.
Sarebbe opportuno pensare anche al rafforzamento delle garanzie per i parlamentari dell’opposizione. Ad esempio, la Costituzione francese (paese maggioritario fortemente sbilanciato verso l’esecutivo) all’articolo 61 comma 2 stabilisce che: “[…] le leggi possono essere deferite al Consiglio costituzionale, prima della loro promulgazione, dal Presidente della Repubblica, dal primo ministro, dal presidente dell’Assemblea nazionale, dal presidente del Senato, da sessanta deputati o da sessanta senatori”. Si tratta di un controllo preventivo di costituzionalità molto più concreto ed efficace rispetto a quello previsto nel nostro procedimento parlamentare: in Italia la “pregiudiziale di costituzionalità” è discussa direttamente dall’assemblea e quindi, inevitabilmente, viene dato un voto di tipo politico (la minoranza a favore, la maggioranza contro).
In conclusione, più che un punto di arrivo, quello stipulato tra Renzi e Berlusconi sembra essere il punto di partenza, ma resta molto da fare, se solo il dibattito politico smetterà di ruotare attorno alle sorti personali di questo o quell’altro leader.

Autore: Marco Cucchini

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