La guerra di Gina contro la Brexit: così “la Davide britannica” mette in crisi la premier May

La guerra di Gina contro la Brexit: così “la Davide britannica” mette in crisi la premier May

Gina Miller è abituata alle missioni impossibili. Insieme al marito ha creato uno dei fondi di investimento più ricchi di Gran Bretagna, poi ha fatto causa all’industria dei fondi di investimento sostenendo che certe speculazioni sono troppo opache. Abbandonati i fondi si è impegnata a tempo pieno nella beneficenza, poi ha fatto causa al settore della beneficenza affermando che spende troppi soldi per funzionari e uffici, non abbastanza per aiutare i poveri.

E una volta che si è stufata di tutto, ha cambiato radicalmente vita, girovagando tre anni con consorte e figli per l’America Latina. Ma la sua più grande sfida è l’ultima: nei giorni scorsi la 51enne businesswoman britannica di origini sudamericana (è nata in Guyana) ha presentato ricorso all’Alta Corte di Londra contro la decisione del primo ministro Theresa May di invocare l’articolo 50 del trattato europeo nel marzo prossimo, il meccanismo che metterà in moto la secessione del Regno Unito dall’Unione Europea, senza sottoporre il procedimento a un voto del Parlamento. Se il ricorso verrà accolto dai giudici, la premier dovrà affrontare una votazione alla camera dei Comuni e a quella dei Lord, spiegando che tipo di Brexit vuole realizzare, e potrebbe verosimilmente essere sconfitta. A quel punto il governo dovrebbe cambiare strategia e tutto sarebbe possibile: un Brexit meno “hard”, per esempio restando dentro al mercato comune (e dunque mantenendo la libertà di immigrazione), un nuovo referendum, elezioni anticipate. Magari, in ultima analisi, niente più Brexit.

La sfida di una donna fino a ieri relativamente poco conosciuta alla donna più conosciuta del regno (a parte la regina) ha qualcosa di eroico, quasi cinematografico, alla Davide contro Golia. “Mi sono svegliata la mattina dopo il referendum del giugno scorso come dentro un incubo”, racconta Gina Miller, che aveva votato perché il suo paese rimanesse nella Ue. E l’incubo è peggiorato, dal suo punto di vista, quando si è resa conto che la nuova premier May ha deciso praticamente da sola, insieme a un pugno di ministri radicalmente euroscettici, non soltanto di portare la Gran Bretagna fuori dalla Ue ma anche fuori dal mercato comune europeo, promettendo di ristabilire la totale “indipendenza e sovranità parlamentare” britannica, a suo parere violata fino ad ora dalle leggi europee che vi si sovrappongono.

Sono in tanti a criticare la scelta di Downing street: parlamentari dell’opposizione e dello stesso partito conservatore, finanziari e banchieri della City, commentatori sui giornali. Nessuno, tuttavia, ha avuto l’idea di mettere un ostacolo concreto, sulla strada di Theresa May: una sentenza dell’Alta Corte. Ci ha pensato Gina Miller, rivolgendosi a uno dei più prestigiosi studi legali della capitale. Le sue argomentazioni sono di due tipi. Una prettamente legale: il governo sostiene di non avere bisogno di un voto del parlamento, nonostante il referendum fosse sulla carta soltanto “consultivo”, in virtù di un’antica “royal prerogative”, un diritto reale di agire senza necessità di approvazione parlamentare. Insostenibile, a suo parere, nel caso di una decisione storicamente importante come quella di portare il Regno Unito fuori dalla Ue. La seconda argomentazione è più politica, o se vogliamo etica: sarebbe ben strano voler ristabilire la “sovranità parlamentare” britannica, rifiutandosi però di ascoltare l’opinione in materia del Parlamento.

Adesso la premier afferma che perlomeno lo “ascolterà”, avendo accettato, dopo un iniziale rifiuto, un dibattito su Brexit ai Comuni: ma dovrà essere un dibattito senza un voto, secondo Downing street. E così le due donne finiranno per affrontarsi simbolicamente all’Alta Corte, ciascuna rappresentata da uno stuolo di avvocati: Gina Miller contro Theresa May. In una nazione in cui la separazione dei poteri è ben netta, e dove anche un comune cittadino può sfidare le più alte cariche dello stato, in teoria è possibile che la businesswoman della Guyana sconfigga la premier conservatrice.

Non è l’unico ostacolo sulla strada di Brexit per Theresa May. In verità se ne aggiungono di nuovi tutti i giorni. Un altro è il calo della sterlina, che punisce i consumatori e farà aumentare l’inflazione, prevede la Banca d’Inghilterra. Un altro ancora è venuto fuori stamane: il premier irlandese Enda Kenny ammonisce sui “gravi danni” economici e politici che verrebbero causati da un “hard Brexit”, ovvero dall’uscita della Gran Bretagna da Ue e mercato comune. Dagli accordi di pace del 1996, sull’Isola di Smeraldo non c’è più un confine fra repubblica irlandese e “provincia” britannica dell’Irlanda del Nord: ma il confine, se l’Irlanda del Nord, in quanto parte della Gran Bretagna, si ritrovasse completamente fuori dall’Europa, verosimilmente tornerebbe a esistere, creando complicazioni non soltanto commerciali. Il pericolo maggiore sarebbe la recrudescenza del conflitto fra cattolici e protestanti in Irlanda del Nord. Nella quale, non a caso, proprio ieri Gerry Adams, leader dello Sinn Fein, il partito cattolico secessionista che vuole la ricongiunzione dell’Irlanda del Nord con l’Irlanda, ha chiesto formalmente che l’Irlanda del Nord (in cui, nel referendum su Brexit, un’ampia maggioranza ha votato per restare nella Ue) possa restare almeno dentro al mercato comune europeo. La stessa richiesta fatta nei giorni scorsi da un’altra regione autonoma britannica che nel referendum ha votato per restare nella Ue: la Scozia, che in caso contrario medita di organizzare un nuovo referendum sull’indipendenza dalla Gran Bretagna. Uno scenario che vedrebbe Scozia e Irlanda del Nord nel mercato comune ma non nella Ue (come la Norvegia), mentre Inghilterra e Galles sarebbero fuori da tutto. Ammesso che Bruxelles sia d’accordo, ma anche questo è difficile se non impossibile: la Spagna già minaccia di mettere il veto, per non creare precedenti in cui la Catalonia possa raggiungere accordi separati per contro proprio.

In questo calderone di ipotesi si inserisce pure la rivelazione di oggi del Financial Times, secondo cui il governo May, contrariamente a quanto promesso dai “brexitiani” nella campagna referendaria, continuerebbe a versare miliardi di sterline al budget della Ue per mantenere l’accesso al mercato comune soltanto in certi settori chiave dell’economia, come la finanza e l’automobile. Una sorta di mercato comune “alla carta”, questo piatto sì e quest’altro no, su cui è da tutto da vedere cosa pensi Bruxelles. Se fosse realizzato, Brexit sarebbe un puzzle ancora più contraddittorio e confuso: la City e la città di Sunderland (la città in cui tutto dipende dalla locale fabbrica della Reanult/Nissan) dentro il mercato comune europeo, il resto dell’economia nazionale fuori. Un situazione da far girare la testa. E la trattativa su Brexit non è neanche ancora cominciata. Nemmeno comincerà, probabilmente, se Gina Miller batte Theresa May all’Alta Corte.

Fonte: repubblica.it

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