Oakeshott, la felicità non dipende dallo stato

Oakeshott, la felicità non dipende dallo stato

14/11/2013 – L’intervista impossibile al filosofo, riproposto da Istituto Bruno Leoni.

Nel celeberrimo saggio del 1962 “Razionalismo in politica” Michael Oakeshott definisce la filosofia del razionalismo politico moderno, orgogliosamente persuasa di poter fondare ogni analisi su una pregiudiziale avversione a qualsivoglia autorità e tradizione. L’ossessione per la perfezione e per l’uniformità segnano in profondità quest’atteggiamento, che si basa sulla celebrazione della conoscenza “tecnico-scientifica” e sulla totale svalutazione di quella “pratica”. La dimensione ideologica e semplificatoria della vita pubblica nell’età moderna – con tutte le sciagure che ciò ha comportato – è figlia di tale visione generale. I maggiori temi di discussione vengono così trattati in modo semplicistico e banalizzante, e sono esaminati soltanto sotto il profilo tecnico: cioè nell’assoluta incapacità di intuirne la complessità.

L’INTERVISTA IMPOSSIBILE

di Giovanni Giorgini e Davide Orsi*

Professor Oakeshott, lei viene descritto, e si auto-definisce, un conservatore. Ma nell’attuale situazione di crisi europea e mondiale non ritiene che sarebbe necessaria una decisa azione di cambiamento?
Guardi, essere conservatore non significa affatto essere avversi al cambiamento. Significa essere consapevoli che il cambiamento avviene sempre all’interno di una tradizione politica e che esso non può essere imposto dall’alto e prescindendo da tale tradizione. Questo è il tipico errore “razionalistico”, che riflette il mito della ragione strumentale, “pura”, che ricerca il meglio in assoluto prescindendo dalle circostanze.

In Italia, nel discorso pubblico, si parla spesso di declino. Lei cosa ne pensa della situazione attuale?
Mi pare che, in realtà, il discorso si possa allargare a gran parte delle società politiche contemporanee. Il problema è che le tendenze teleocratiche della politica moderna e dello Stato stanno prendendo sempre più il sopravvento. Chiunque fra di noi apprezzi la libertà individuale non può che rammaricarsi di fronte al crescente conformismo delle nostre società.

Cosa intende?
Il crescente intervento dello Stato nell’organizzare le attività dell’individuo e la vittoria di un vocabolario produttivista e contrattualista nel discorso pubblico hanno prodotto una distorsione nella nostra comprensione del ruolo dello Stato, ormai percepito sempre di più come dispensatore di servizi e assistenza e non come regolatore.

In che senso questo condurrebbe a un conformismo?
Nella misura in cui una comunità politica o, più in generale, un gruppo di persone è organizzato per il raggiungimento di uno scopo, le condotte eterodosse dell’individuo libero sono sempre più difficili. Se poi è lo Stato, con il suo apparato di repressione, a imporre un determinato fine, allora il godimento della libertà individuale, e la possibilità per ciascun uomo o donna di compiere le proprie scelte è davvero difficile. Quello che si incentiva è piuttosto un’attitudine gregaria. All’individuo libero, si preferisce “l’individuo manqué” che non è in grado di scegliere per se stesso.

È questa la distinzione fra “associazione civile” e “associazione d’impresa”, fra “nomocrazia” e “teleocrazia” di cui parla nelle sue opere?
Sì. Da un lato vi sono coloro che comprendono lo Stato come regolatore, come il custode di un sistema di leggi imparziale e indifferenti agli scopi individuali e particolari. Dall’altro, quanti ritengono che le leggi debbano servire alla promozione di un fine individuato dalla collettività, o dai suoi leader. In alcuni periodi la visione dello Stato come nomocrazia è prevalsa, ma la storia moderna, e ancora di più quella del Novecento, è una storia del progressivo prevalere di una visione strumentalista dell’ordine legale.

Si pensa spesso a lei come a un teorico dell’eccezionalità della politica inglese. L’ideale della “nomocrazia” è propria solo di quell’esperienza?
Beh, credo che i diritti individuali e la pratica parlamentare così come sono stati conosciuti nella Modernità derivino in larga misura dall’esperienza della libertà dell’uomo inglese. Tuttavia, ritengo che, a partire dalla Modernità, si possa parlare sempre di più di una cultura politica europea. In particolare l’idea di individuo libero e di Stato di diritto sono stati sviluppati in tutta l’Europa, in Italia, in Francia, nei Paesi Bassi. Fra i grandi pensatori dello Stato come nomocrazia non vi è solo Hobbes, ma anche Marsilio da Padova, Montaigne, Kant ed Hegel.

È allora forse nella “rule of law” che vanno individuate le “radici” dell’Europa?
Sì, credo che fra ciò che accumuna l’Europa vi sia una comprensione dell’ordine legale come “Stato di diritto”, cioè il governo di leggi imparziali, non strumentali e che si applicano egualmente a tutti. È anche vero, come dicevo prima, che a questa comprensione si è affiancata una concezione collettivista, in cui la legge è asservita agli interessi di una parte, di un gruppo, o di un ideale.

Infatti, l’esistenza di uno “Stato di diritto” è fra i parametri previsti dall’Unione Europea nel suo processo di allargamento…
Bisogna però dire che non si può pensare che una pratica di governo possa essere imposta come criterio dall’esterno. Tali pratiche sono piuttosto il risultato di un’attività quotidiana, di continuo adattamento alle circostanze e di continua reinterpretazione di una tradizione in cui si è cresciuti e vissuti. Difficilmente una comunità che non ha mai conosciuto, o che ha da lungo tempo dimenticato, la pratica della libertà e della legge, può recuperarla o riscoprirla in poco tempo.

La pianificazione è dannosa in economia come in politica.
Esattamente. L’idea che un’élite, o un gruppo organizzato, possa modificare la cultura politica, la pratica di governo, o il modo di condurre gli affari economici di una società che si è tradizionalmente comportata altrimenti è non solo dannosa, ma errata. Ciò è semplicemente impossibile.

Non vi è quindi possibilità di cambiamento?
Certamente c’è. La politica, così come tutta la nostra vita, è cambiamento. Bisogna solo essere consapevoli della sua necessaria gradualità, lentezza e dell’incertezza dei suoi esiti.

I giovani di oggi sembrano smarriti di fronte a un futuro incerto più che in passato. Lei cosa consiglierebbe loro?
Due cose. Da un lato di essere più esigenti con i loro governi, ai quali devono chiedere rispetto delle regole ed eticità di comportamento (che è una cosa assai diversa dallo Stato etico). Dall’altro di non aspettarsi che la propria felicità venga dalla politica o dallo Stato: il governo deve avere il minor numero di compiti possibili, fra i quali il primo è il rispetto della “rule of law”.

*Giovanni Giorgini è Professore di Filosofia Politica all’Università di Bologna e Visiting Professor alla University of Chicago.
Davide Orsi è Dottorando in Filosofia presso la Fondazione Collegio San Carlo e in Politics and International Relations alla Cardiff University.

CHI È MICHAEL OAKESHOTT (1901-1990)

Michael Oakeshott (1901-1990) è stato fra i maggiori filosofi politici del Novecento. Grande studioso di Thomas Hobbes, docente di scienza politica per vari decenni alla London School of Economics, è stato il massimo interprete del pensiero conservatore nel secondo dopoguerra. Le sue opere principali sono Experience and Its Modes (1933),Rationalism in Politics and Other Essays (1962), On Human Conduct(1975) e The Politics of Faith and the Politics of Skepticism (apparso postumo nel 1996).

Fonte: linkiesta.it

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *