Chi ha paura del lobbista robot?

Chi ha paura del lobbista robot?

Pubblichiamo un interessante articolo scritto da Gianluca Comin per la rivista online lettera43.it.

Il magazine Politico, vero oggetto di culto per tutti coloro che seguono con un interesse non episodico la multiforme vita politica statunitense, ha dedicato la copertina del suo primo numero del 2018 ai processi di automazione che potrebbero presto impattare su un settore molto particolare: quello delle relazioni istituzionali. Non è certo una novità interrogarsi pubblicamente, o sulle pagine di un giornale, sugli effetti che l’innovazione tecnologica è in grado di scatenare rendendo le “macchine” sempre più protagoniste dei processi produttivi e del mondo del lavoro in generale.

I PROCESSI DECISIONALI E L’AUTOMAZIONE. Il quesito di Politico («Washington sarà automatizzata?») è però particolarmente affascinante: può il contesto unico e squisitamente caotico della Capitale federale, al centro di romanzi, film e serie tivù, essere improvvisamente razionalizzato dall’avvento di sistemi e programmi in grado di sostituire i professionisti delle relazioni con i decisori pubblici? Figure che possiamo immaginare come astuti consulenti e come acuti osservatori della realtà che li circonda, in grado di fare leva su prodigiose reti di conoscenze e di attivarsi all’istante per i clienti più disparati. Quello che conta, nella giungla di Washington, è soprattutto l’abilità nel seguire con attenzione e perspicacia i processi decisionali e nel rappresentare, con intelligenza ed efficacia, la posizione del proprio cliente. Come può essere automatizzato tutto questo?

Hwang racconta di come si possano utilizzare programmi specifici per quantificare l’efficacia di un membro del Congresso nel promuovere l’approvazione di un suo disegno di legge, stimando anche la percentuale di successo e gli argomenti sui quali il parlamentare ha dimostrato maggiore dimestichezza e fortuna

L’ipotesi di un lobbista robot non è fortunatamente ancora contemplata. Politico racconta invece nel suo reportage il lavoro condotto da un’azienda innovativa che ha solo quattro anni di vita, la Fiscal Note. Il giornalista viene guidato dal Ceo, Tim Hwang, alla scoperta di un modo nuovo, e molto curioso, di concepire questo mestiere. Facendo esempi concreti, Hwang racconta con apparente nonchalance di come si possano utilizzare programmi specifici per quantificare l’efficacia di un membro del Congresso nel promuovere l’approvazione di un suo disegno di legge, stimando anche la percentuale di successo e gli argomenti sui quali il parlamentare ha dimostrato maggiore dimestichezza e fortuna.

UN NUOVO ECOSISTEMA INFORMATIVO. Nel nostro caso, i sistemi proposti da FiscalNote potrebbero permettere a un ipotetico cliente di decidere su quale potenziale sostenitore puntare e con quali altri rappresentanti, anche appartenenti allo schieramento opposto, si può tentare di rendere la coalizione bipartisan per far giungere più facilmente in porto la proposta legislativa di interesse. È un modo, osserva con un certo entusiasmo Politico, per mettere finalmente ordine in un ecosistema informativo che tende spesso a sfuggire a qualsiasi regola di catalogazione: posizioni pubbliche espresse solo a parole, sotterfugi o motivazioni personali che influiscono sulle scelte politiche, reti di connessione che sfuggono agli occhi di un osservatore non allenato.

Ma siamo sicuri che utilizzare i dati, nuova ossessione della nostra epoca, renda migliore il lavoro dei consulenti? O, addirittura, contribuisca a ridurre drasticamente le opportunità occupazionali che da sempre attirano chi fa questo mestiere nelle grandi città che gravitano intorno alle sedi istituzionali di un Paese? La risposta, secondo me, non è così netta come potrebbe sembrare. Certo, è impossibile negare l’importanza delle nuove tecnologie per l’evoluzione di un settore tutto sommato tradizionale come quello dei Public Affairs. Pensiamo alle innovazioni, per esempio, che hanno riguardato in questi anni la sfera della comunicazione politica: monitoraggio delle conversazioni online, mobilitazione continua sul web, analisi dei dati collegio per collegio in modo da tarare le strategie della campagna elettorale.

L’ESEMPIO DEI SOCIAL NETWORK. Lo stesso si può dire però del rapporto tra istituzioni, cittadini e imprese: i social network sono diventati arene di confronto peculiari, in cui un premier o un ministro possono ritrovarsi a sostenere una disputa con account di soggetti privati oppure avvertire l’esigenza di intervenire in prima persona se chiamati in causa su determinate questioni. Il web, è sotto gli occhi di tutti, consente di veicolare i propri messaggi in modo pervasivo: mozioni online che sfidano il legislatore denunciando irregolarità o inefficienze, argomenti che diventano trending topic nonostante rientrino in campi riservati agli specialisti, articoli o immagini che riscuotono un inaspettato successo tramite le condivisioni sui social media o il boost assicurato da un influencer della Rete.

Politico ha ragione su questo: la rappresentanza degli interessi non può prescindere dall’utilizzo delle nuove tecnologie, dalla potenza comunicativa dei social network alla facilità di consultazione di archivi online, che permettono ricerche rapide e puntuali. Non è difficile catalogare con certezza matematica il numero di interrogazioni parlamentari su un certo tema, la frequenza con cui un parlamentare è stato relatore di provvedimenti legislativi di rilievo, le inclinazioni e le abitudini di voto, il numero di citazioni in discorsi o dichiarazioni a mezzo stampa. Ma come si coniuga un semplice numero con la vera analisi a tutto tondo di un decisore pubblico con cui si vuole avviare un’interlocuzione? La sua storia, le motivazioni che hanno caratterizzato il suo impegno in politica, i “compagni di viaggio” che hanno condiviso parti importanti della sua carriera, i rapporti di fiducia che ha intessuto negli anni e lo “stile” che apprezza maggiormente in chi si approccia a lui.

QUEL CAPITALE UMANO NON SOSTITUIBILE. Non si tratta di inutili finezze o di esagerati sforzi di introspezione psicologica, quanto di un bagaglio di soft skill molto complesse che si costruisce con il tempo lavorando in contesti diversi e imparando costantemente, senza lasciare che la curiosità diventi consuetudine e ripetizione di vecchi schemi. Ben venga, dunque, l’apporto che software e piattaforme possono garantire al nostro lavoro, ma senza sacrificare sull’altare di una precisione analitica non richiesta quel “fiuto” che rende davvero indispensabile (e credibile) un buon professionista.

Autore: Gianluca Comin | Fonte: lettera43.it

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