Fake news, chi sono i cyber Sherlock Holmes che inseguono Putin

Fake news, chi sono i cyber Sherlock Holmes che inseguono Putin

Graham Brookie, ex consigliere della comunicazione di Obama, spiega a Lettera43.it la ricetta anti-bufale: «Gli anticorpi in Rete ci sono. E non è tutta colpa della Russia. Ma Facebook faccia di più». L’intervista.

rima di fare lo «Sherlock Holmes di internet» Graham Brookie era il giovane responsabile della Comunicazione strategica della Casa Bianca, «sotto Barack Obama», premette da subito. Prima ancora era stato advisor sulla sicurezza informatica e sull’antiterrorismo e assistente nel Consiglio nazionale di sicurezza dello staff presidenziale Usa. Dal 2017 è il vice direttore della start up dell’Atlantic council Digital forensic research lab (@DFRLab): un team di esperti che scandaglia il web, soprattutto i social network, per smascherare «in tempo reale le fake newssolo con fonti open source». In tre ore, e con strumenti accessibili a tutti, il suo gruppo individua e ricostruisce la genesi e la diffusione di grosse bufale online.

INVESTIGATORI RESILIENTI. «Un resiliente digitale», si definisce Brokie alla presentazione all’Internet festival di Pisa. «Il nostro modello dimostra che la Rete ha gli anticorpi. Tutti possono diventare consapevoli della disinformazione e contrastarla con strumenti a loro portata», racconta a Lettera43.it dopo aver seguito e controllato il voto in Germania. Come per le Presidenziali in Francia, il suo team ha rintracciato e illustrato la disinformazione data in pasto agli elettori dai movimenti populisti e di estrema destra. Un’altra area di monitoraggio del DfrLab è la disinformazione propagata dalla Russia che, giura Brookie, «amplifica molto i fake. Ma non sono tutta opera di Putin».

DOMANDA. Avete trovato prove, o un qualche indizio, di finanziamenti ai gruppi di estrema destra? Emerge insomma un piano dietro a questo flusso continuo di fake news?
RISPOSTA. 
Guardi, su questo negli Usa assistiamo a un problema secondario a quello principale che è il circolare e il montare di falsi in Rete, specie durante tragici eventi di massa come la sparatoria di Los Angeles. Si presume cioè che tutta la disinformazione, anche su storie e fatti locali, arrivi dalla Russia. Ma non è interamente così. Neanche per gli scontri e i morti di Charlottesville dell’agosto 2017, dove pure c’è stata molta disinformazione russa.

D. Qual è obiettivamente l’azione del Cremlino?
R. 
Quel che fanno sistematicamente Russia TodaySputnik o altri media finanziati o legati al Cremlino è soprattutto propagare e amplificare, anche attraverso gruppi di falsi account automatici sui social (in gergo informatico i bot, ndr), fake che non sono partiti da loro. Anche su Charlottesville la disinformazione iniziale non era russa, era disinformazione e stop. E l’una poi ha alimentato l’altra.

D. Dall’indagine del DfrLab anche la falsa foto sulle molestie di Colonia, rilanciata dalla propaganda dell’estrema destra tedesca di AfD, è risultata riconducibile a un video antisemita in inglese: frutto di più ritocchi e caricato in Rete a febbraio, mesi prima delle Legislative di settembre.
R.
 Sì, intanto la piazza mostrata non era di Colonia ma quella egiziana di Tahrir, al Cairo. Così abbiamo chiesto su Twitter a chi appartenesse quel volto di ragazza fin troppo glamour e mediatico, incollato al centro. E un utente, cinque minuti dopo, ci ha risposto che era, come poi appurato, di una modella inglese.

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Il fake virale di AfD.

D. In quanto tempo avete ricostruito il falso di AfD e da quante persone è composto il vostro team?
R. 
Tre ore in tutto. Tra i 12 e i 15 addetti lavorano a tempo pieno. In team e soprattutto in tempo reale, che è qualcosa di unico. Sono esperti di tecnologie, giornalisti e comunicatori, militari e analisti di vari settori, con un background nella comunicazione o di incarichi per il governo… Due cose soprattutto ci premono: accertare che quanto abbiamo trovato sia vero e poi pubblicare il dossier subito. Farlo mesi dopo, quando l’attenzione mediatica è passata, sarebbe inutile.

D. Alla vigilia delle Presidenziali francesi avete invece inseguito il giallo dei Macronleaks.
R.
 Lì non abbiamo provato a individuare da dove venissero i leaks, ma ci siamo concentrati nel capire e nello spiegare da dove e come si stava propagando la notizia, dal venerdì precedente alla domenica del voto. E si è rivelato essenziale riuscire a comunicare agli elettori, già all’apertura delle urne, che curiosamente la tempesta sui social non era stata lanciata da persone francesi ma Oltreoceano. Prima dal tweet di un suprematista di destra, poi da altri account Usa e da probabili bot.

D. Davvero attingete solo a fonti aperte, disponibili online? Se è così, chiunque può scoprire facilmente i fake.
R.
 Certo. Organizziamo anche dei workshop per spiegare agli internauti comuni quali sono esattamente i nostri ferri del mestiere e come si possono proteggere dalla disinformazione in Rete.

Sui social nerwork serve un po’ di scetticismo iniziale. Sono strumenti ideali per connettere, non per informare. Anche se poi cambiano le regole del gioco

GRAHAM BROOKIE

D. All’atto pratico come possono muoversi i navigatori comuni?
R.
 Attraverso una semplice ricerca su Google immagini, con “Google reverse image”, si può risalire alla localizzazione di una foto. Del Cairo e non di Colonia, per esempio. E poi c’è il super potere della connessione, che può e quindi deve essere usato il più possibile a fin di bene.

D. Però negli stessi attimi, sempre su internet, altri fake diventano incredibilmente virali dal nulla, propagandosi a una velocità impressionante. Non è pericolosa questa rapidità, per di più su scala globale?
R. 
Per me è invece una grande forza, non una potenziale minaccia. Un uso consapevole di internet può mitigarne i rischi. Deve cioè essere acquisito un certo livello di scetticismo iniziale, specie per gli eventi dirompenti. Ma in generale verso tutte le informazioni sui social. Che sono strumenti ideati per connettere, non per informare. Anche se stanno cambiando le regole di base nel quale facciamo le cose.

D. Vi definite «resilienti digitali». Ciò significa che in prospettiva la battaglia è lunga. Molto lunga, se non addirittura infinita come il web.
R. 
Occorre costruire, nel tempo, una resilienza digitale diffusa. Pensiamo a una breaking news della Cnn: è chiaro ormai ai più che anche il resoconto immediato in tivù è incompleto e in parte sempre da appurare. Allo stesso modo, i tweet o i post su altri social network non possono essere presi subito per veri. Ma sono molto utili per seguire gli sviluppi degli eventi e acquisire – con un approccio critico – le informazioni che man man affiorano.

Facebook deve fare di più. Se è provato che un account è un fake e che si stanno diffondendo menzogne, violando i termini del servizio, va chiuso. Twitter l’ha fatto diverse volte

GRAHAM BROOKIE

D. Giudica positivamente o negativamente il modo in cui si sta evolvendo Facebook? Il social di Zuckerberg è invaso da molti account falsi: non potrebbe chiuderli quando vengono denunciati? Piuttosto che censurare, come a volte accade, notizie vere?
R.
 Sì, penso che il gruppo debba fare di più. Ma va anche detto che Facebook non è l’unica compagnia del settore ad avere in pancia fake, ce li hanno anche Twitter e altri social. E poi tutti operano in uno spazio regolatorio nuovo e dalle ripercussioni incerte, con regolamenti di conseguenza soft, a livello superiore, anche degli Stati.

D. Ma gli Stati, attraverso i governi, non potrebbero introdurre normative più restrittive o di tutela, come ha appena fatto la Germania?
R. 
È possibile, ma scivoloso. Intendo dire che gli stessi addetti ai lavori stanno comprendendo solo passo dopo passo, studiando i casi specifici emersi, i risvolti di questo nuovo terreno in fase d’evoluzione. Ancora non si sa, per esempio, se un programma di censura possa innescare secondi, terzi e anche quarti effetti peggiori di quelli bloccati. Prima di agire con immediatezza, occore capire meglio. C’è in ballo, tra l’altro, la libertà d’espressione.

D. Però in Austria proprio lo scandalo non chiarito, a ridosso delle Legislative, su due pagine false di Facebook (attribuite in origine al leader del primo partito) ha pesantemente influito sul risultato. La censura non è mai una soluzione?
R. 
È davvero necessario che Facebook faccia di più. Se è provato che l’account è un fake e che si stanno seriamente diffondendo menzogne, violando i termini del servizio, l’account va chiuso. Twitter l’ha fatto diverse volte, anche con i bot di disinformazione russa.

Fonte: lettera43.it | Autore: Barbara Ciolli

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