Schiavi dei social o editori? Il dilemma giornalistico con Facebook

Schiavi dei social o editori? Il dilemma giornalistico con Facebook

Praticamente stai mettendo il destino di una società nelle mani di un’altra. Se non sei su queste piattaforme sei morto, se non ci sei non fai soldi». Nelle parole di Shane Smith c’è sicuramente molto del pragmatismo anglosassone e dello stile che ha reso famoso Vice, la rivista di tendenza da lui fondata, ma il contenuto è una buona base di partenza per riflettere su che cosa significa essere editori oggi. Le piattaforme a cui fa riferimento Smith sono i social media, diventati negli ultimi anni una componente fondamentale della nostra vita: l’ormai classico Facebook, il declinante Twitter, il travolgente Snapchat e molte altre, più o meno utilizzate.

INVASIONE DI COMPETENZA. Al centro della battuta di Smith c’è il destino dei grandi gruppi editoriali e della stampa, di recente oggetto di un corposo studio del Tow Center for Digital Journalism della Columbia Journalism School dal titolo “The Platform Press. Come la Silicon Valley ha reingegnerizzato il giornalismo”. Dati che cercano di inquadrare l’inarrestabile processo tramite il quale piattaforme neutre come i social network abbiano invaso stabilmente lo spazio di competenza degli “editori”, imprigionandoli in un dilemma: accettare che qualcuno decida il grado di diffusione (se non la tipologia) dei propri contenuti pur di renderli visibili a un’audience potenzialmente sterminata.

Secondo l’istituto ci sono tutte le condizioni per interpretare questo fenomeno, definito “la terza ondata”, ancora più significativo dell’avvento del digitale nel mondo della carta stampata. Nella prima fase, che va dal 1994 al 2004, i grandi gruppi editoriali hanno dovuto imparare a rendere i propri prodotti trasferibili sul web: dallo sfoglio del quotidiano al clic sull’homepage.

BASTA UNO SMARTPHONE. La seconda ondata, nel decennio seguente, ha coinciso con la diffusione più ampia della connessione internet: i media hanno iniziato a dare sempre più accesso agli utenti (i commenti agli articoli) e la fortezza dell’informazione si è gradualmente aperta a contributi esterni (pensiamo ai reportage autofinanziati tramite crowdsourcing). Oggi consultiamo i giornali direttamente dal nostro smartphone e possiamo farlo senza mai visitare l’homepage di quotidiani o network televisivi: ci pensano Facebook o Twitter ad affastellare link sulla nostra timeline.

Il vero nodo è il rapporto di forza tra i soggetti coinvolti. Quando Shane Smith afferma che il destino del giornalismo moderno è nelle mani di Mark Zuckerberg e dei suoi epigoni non esagera, perché è partendo dai social che decidiamo che tipo di prodotti editoriali consumare: secondo gli ultimi dati diffusi da Parse.ly, a Facebook è attribuibile il 45% del traffico reindirizzato verso siti di news, mentre il 31% arriva da Google.

AUTENTICITÀ IN PERICOLO. A ciò si sommano i contenuti cosiddetti “nativi” e che stanno prendendo sempre più piede: le news di Apple, gli Instant Articles di Facebook (articoli “embeddati” direttamente sulla piattaforma) e le notizie che compaiono su Snapchat. La possibilità di raggiungere direttamente i miliardi di utenti presenti sui social media comporta però un prezzo salato, come evidenziato nello studio da Carla Zanoni, Executive Emerging Media Editor del Wall Street Journal: il pericolo di perdere l’autenticità. Il brand, garanzia di correttezza e di veridicità, rischia di passare sotto traccia in un flusso indistinto di post.

“L’84% degli italiani ha ammesso di consultare Facebook più di una volta al giorno. Interrogati sul motivo alla base dell’utilizzo, il 21% ha dichiarato di farlo per curiosità”

Le opportunità in termini di nuova audience raggiunta sono contro-bilanciate dalle pressioni scaricate sulle redazioni: oltre agli indispensabili social media manager, gli staff si devono infatti arricchire di esperti in grado di pianificare quali tipi di contenuti sono più adatti per essere diffusi su una data piattaforma e quali di essi potrebbero non esserlo.

MA SERVE PIÙ TRASPARENZA. Ma se il giornalismo si adatta al mondo digitale, è auspicabile, conclude lo studio, che anche le piattaforme diventino più trasparenti in materia di dati di audience e introiti pubblicitari. Le recenti dichiarazioni di Zuckerberg sembrano suggerire che, in un contesto in cui la verità è diventata un concetto sempre più relativo, anche le piattaforme si sono decise a riconoscere pubblicamente la propria responsabilità, nonostante siano ancora restie a definirsi media company. Inutile però nascondere la testa sotto la sabbia: se il giornalismo cambia pelle non può farlo barattando la sua libertà di decidere la direzione in cui andare. Neanche in cambio della potenza di fuoco offerta dai social.

MISSIONE DA NON TRADIRE. Il discorso non cambia se spostiamo il focus sul nostro Paese. La pubblicazione di una ricerca condotta dalla società Blogmeter sugli italiani e i social media conferma la netta prevalenza di Facebook: l’84% degli intervistati ha ammesso di consultarlo più di una volta al giorno. Interrogati sul motivo alla base dell’utilizzo, il 21% ha dichiarato di farlo per curiosità. Se non vogliamo che questa curiosità venga dissipata con contenuti editoriali poveri o volutamente adattati alla diffusione quantitativa, serve un giornalismo innovativo e moderno. Capace di sfruttare i benefici del digitale senza mai dimenticare la propria missione.

Autore: Gianluca Comin – professore di Strategie di comunicazione, Luiss, Roma

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