La politica degli Shōgun

La politica degli Shōgun

Nell’ossessivo e autoreferenziale dibattito degli ultimi 18 mesi è mancato un tema: quello relativo all’evoluzione del sistema partitico italiano. Eppure si tratta di un cantiere aperto dalla fine degli anni ’80, quando è iniziata la destrutturazione organizzativa dei partiti politici.

La Seconda Repubblica – costruita sull’insano bipolarismo “berlusconiani-antiberlusconiani” – ha visto una competizione tra una coalizione di partiti senza leader (il centrosinistra) e un leader senza partiti, sostituiti da armate personali. Oltre alla personalità di Silvio Berlusconi la seconda colonna delle competizioni elettorali del periodo 1994-2006 è stata il sistema elettorale maggioritario articolato prevalentemente su collegi uninominali, che avrebbe potuto controbilanciare in periferia il tasso di personalizzazione insito nella “nuova politica”.

E per certi versi il modello ha tenuto: in tutte e tre le elezioni con il maggioritario uninominale il risultato ha portato a una maggioranza omogenea nelle due Camere e – dal 1996 al 2006 – le legislature si sono concluse a scadenza naturale e il numero dei partiti rilevanti è rimasto, tutto sommato, sotto controllo. Il passaggio alla competizione su base proporzionale (ancorché corretta dal premio di maggioranza) a partire dal 2006 ha generato invece due fattori: un aumento dei partiti e un aumento della “transumanza parlamentare”. Il primo fattore si spiega con la logica perversa del premio di maggioranza che – nei fatti – trasformando l’Italia in un solo enorme collegio uninominale ha reso ogni singolo voto necessario e quindi enfatizzato al massimo il potere di ricatto dei micropartiti. Secondo aspetto deleterio degli ultimi 10 anni. il malcostume del cambio di casacca, agevolato dal meccanismo delle liste bloccate che non prevede un rapporto di fiducia/responsabilità verso gli elettori, ma la mera fedeltà a un capo (fedeltà che si può agevolmente trasferire a un capo diverso senza pagare un prezzo).

Alcuni dati (Camera dei Deputati, legislature di almeno 4 anni):

  • Legislatura 1996-2001 – “cambi di casacca” 44;
  • legislatura 2001-2006 –   “cambi di casacca” 29;
  • legislatura 2008-2013 – “cambi di casacca” 106;
  • legislatura 2013- “cambi di casacca” 128.

Il dato è parziale, sottostimando il fenomeno, perché considera solo la consistenza dei gruppi all’inizio e alla fine e perde di vista il caso dei “cambi multipli” che pure si sono avuti frequentemente ma ci fa capire una aspetto fondamentale: innestare il sistema proporzionale senza porsi il problema del modello partitico dominante è stato un errore.

kagemusha

Come dimostrato 4o anni fa da Giovanni Sartori, perché un sistema proporzionale puro non diventi una maionese impazzita è necessario un livello decente di strutturazione partitica: dal 1948 al 1987,  i 7 partiti sempre presenti in Parlamento hanno garantito una stabilità sistemica, ancorché nel quadro di una instabilità governativa. Infatti, nell’arco dei 40 anni considerati questi hanno costantemente rappresentato la stragrande maggioranza degli elettori, considerato che nel 1948 DC+Sinistre+Centristi+MSI esprimeva il 93% circa dei consensi e nel 1987 la somma DC+PCI+PSDI+PRI+PLI+MSI era ancora attorno al 90%. Pertanto in 4 decenni la strutturazione complessiva del sistema partitico è rimasta quasi immutata, questo anche perché tutti i partiti elencati avevano una chiara identità dal punto di vista culturale, programmatico e socio-economico. Per essere chiari, sappiamo da chi fosse composto il 3% di elettori del PLI, non è facile capire chi sia il presunto 3% di NCD.

Il Partito Democratico – la cui Direzione Nazionale si è tenuta in queste ore – è il solo partito “novecentesco” rimasto ma con la contraddizione dell’elezione diretta del Segretario, pensata per un contesto nel quale il partito si candidasse anche a guidare il Paese, forte di una competizione bipolare e regole maggioritarie. Forse fu sbagliato nel 2008 l’adozione dello strumento dell’elezione diretta del Segretario (che per definizione personalizza i processi politici) e la trasformazione di tutti gli organi assembleari – dalla Direzione Nazionale in giù – in una sorta di consiglio comunale, con la maggioranza che ha sempre ragione e la minoranza che ha sempre torto, inseguendo in questo il modello leaderistico proprio di Berlusconi, unico e irripetibile. Avrebbero dovuto capire che un partito che mira a tenere assieme post comunisti, post democristiani, ambientalisti, diritti civili, solidarismo cattolico, ex liberali, pseudokeynesiani, neofighetti, vecchi parrucconi tardorisorgimentali e passanti ignari forse va governato più con la mediazione che con la decisione autoritativa. Ma è andata così e i danni si vedono tutti: il Segretario che lamenta la scarsa lealtà delle opposizioni interne e le opposizioni interne che protestano perché costantemente tagliate fuori dai processi decisionali.

La realtà è che non si può avere ad un tempo il partito fluido e leaderistico 4.0 e la struttura organizzativa del ‘900, ma ci vuole una scelta e di fronte a un sistema elettorale di tipo proporzionale questa non può che essere fatta privilegiando l’organizzazione sulla personalizzazione. Il partito fluido, all’americana, forse va bene nel contesto degli USA, con collegi uninominali e maggioritario a un turno, non certo con il proporzionale. Inoltre – come sa chi ha studiato un po’ di politica comparata – in presenza di una cultura politica divisa le esigenze dell’inclusione sono più forti di quelle dell’efficacia decisionale, altrimenti la comunità si spacca e poi non la riaggiusti. Per dirla con Albert O. Hirshman la scelta è “Exit, Voice o Loyalty“.

Nel momento in cui si passa definitivamente a un sistema elettorale proporzionale puro, non si può tenere ancora sullo sfondo una riflessione sulla natura del sistema partitico. Un grande paese industrializzato con 60 milioni di abitanti non può permettersi una politica articolata solo su leadership narcise, svincolata da un collegamento con i processi di rappresentanza sociale ed economica. Una politica tutta comunicazione e fedeltà al capo, priva di un legame con i corpi intermedi e senza una modalità di espressione del consenso volta a riallacciare il filo della rappresentanza. Solo capi e partiti personali.

Siamo nel 2017, non meritiamo la politica degli Shōgun nel Giappone tardomedievale.

Marco Cucchini | Poli@rchia (c)

 

 

One Reply to “La politica degli Shōgun”

  1. Come sempre un articolo molto interessante!
    Poi si potrebbe aprire una grande parentesi: se cioè l’elezione diretta dei sindaci sia stata poi sta gran cosa…

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