La terra della disuguaglianza? Si chiama Europa

La terra della disuguaglianza? Si chiama Europa

Gran parte della popolazione europea è sempre stata abituata a pensare di avere una sorta di superiorità sugli USA, fondata, tra le altre cose, sull’esistenza di un modello fatto di economia sociale di mercato solidale, basata su un welfare che rende la disuguaglianza tra poveri e ricchi inferiore a quello generato dal modello americano, e sulla presenza del principio solidaristico che rende le differenze sociali meno pericolose e pervasive che Oltreoceano.
Mentre ci crogiolavamo in questa visione consolatoria non ci accorgevamo che le cose stavano cambiando.

La vecchia Europa della sanità pubblica, dell’università gratis (in moltissimi Paesi), delle pensioni generose, spinta dalla insostenibilità di molte delle misure introdotte tra gli anni ‘60 e ‘80 e dalla crisi economica, ha visto in realtà il lento tramonto di quel modello, e negli ultimi 30 anni quasi ovunque l’indice di Gini, universalmente riconosciuto come il migliore indicatore per la disuguaglianza, è aumentato, e ancora di più in quei Paesi come quelli scandinavi o la Germania, che di una società uguale si è sempre vantata.

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Certo, la differenza rispetto agli USA rimane ampia, e l’Europa è sempre tra le zone meno diseguali nel mondo, e in ogni caso è in corso un dibattito molto intenso tra i sostenitori delle idee di un Piketty, per esempio, che denunciano l’arricchimento continuo dell’1% e coloro che da lato liberale fanno notare che quel 1% è più poroso di quel che si pensa, e composto da persone sempre molto diverse, e che la globalizzazione ha sollevato dalla povertà centinaia di milioni di persone nei Paesi emergenti.

E tuttavia c’è un particolare tipo di disuguaglianza che dovrebbe interessare di più noi europei, più lontana dai discorsi ideologici e politici, più concreta e pericolosa, ovvero quelsolco sempre più profondo che si sta scavando tra la popolazione autoctona in invecchiamento e gli immigrati, e peggio ancora, i più giovani tra loro.
La Svezia è tra i Paesi in cui la disuguaglianza è più aumentata negli ultimi decenni, certo si partiva da livelli veramente bassi per un Paese non socialista, ma ora il divario rispetto alla media dei Paesi OCSE è più che dimezzato.

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Cosa è successo? Il declino della socialdemocrazia svedese? Anche, ma soprattutto è aumentato, invece che diminuire, il divario tra svedesi di origine ed immigrati, in particolare le seconde generazioni. Anzi, nel corso degli anni la differenza nel reddito disponibile tra i figli degli immigrati e quelli degli svedesi è sempre stato maggiore, ed in particolare per i figli di irakeni, iraniani e siriani.

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La quota di figli di immigrati di origine araba sotto la soglia di povertà relativa è praticamente raddoppiata in alcuni casi, toccando il 50%, per es per gli irakeni, i libanesi, i siriani mentre nel frattempo diminuiva per gli svedesi.

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Questi dati sono risalenti ad alcuni anni fa, ma si tratta di un trend di lungo periodo di cui non vi è traccia di cambiamento negli ultimi tempi. Anzi, si può riscontrare in altri Paesi ad alta immigrazione. Dove è chiaro come il destino di disuguaglianza è scritto e determinato nei primi anni di vita, anche per chi in Europa è nato. Secondo uno studio congiunto di ricercatori della London School of Economics, della Pompeu Fabra di Barcellona, di Sciences Po di Parigi di pochi anni fa viene evidenziato come in Germania per esempio più che in altri Paesi rimanga elevato il gap in anni di studi tra maschi tedeschi e turchi, anche di seconda generazione, che diminuisce, sì, ma non abbastanza, rispetto alla prima, e rimane di più di due anni.

Se guardiamo poi ai guadagni, tra prima e seconda generazione di immigrati in Germania e Francia vi possono essere addirittura dei peggioramenti nel gap rispetto ai nativi, ancora una volta soprattutto tra le seconde generazioni turche, ma in ogni caso anche quando si scorgono miglioramenti, questi sono lenti e limitati

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Dal punto di vista dell’occupazione poi le cose sono andate ancora peggio: nella maggior parte dei casi le seconde generazioni sono rimaste ancora più indietro delle prime rispetto agli autoctoni tedeschi e francesi.

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Si tratta ancora, guarda caso, di immigrati di origine araba, maghrebina, turca, mentre miglioramenti ci sono stati per chi proviene dall’Est Europa.
Quello che è accaduto è che i padri negli anni ‘60-‘70 venivano richiesti per carenza di personale nei cantieri e trovavano anche un generoso welfare ad accoglierli, i figli hanno seguito in maggioranza le loro orme, frequentando l’università meno di quanto facevano i coetanei europei, (è del resto quello che accade anche per gli autoctoni, c’è una stretta correlazione tra titolo di studio dei genitori e quella dei figli), e però nel frattempo il mondo era cambiato: i posti nell’edilizia o nel settore manifatturiero, si sono volatilizzati a favore di quelli spesso irraggiungibili nei servizi avanzati, i sussidi del welfare sono sempre meno abbondanti, i quartieri popolari, nuovi e moderni 40 anni fa, sono divenuti ghetti, indirizzi di residenza che non depongono bene su un CV. Per molti il sogno europeo si è infranto. E come si è visto tra gli immigrati è andata peggio proprio agli uomini, e soprattutto a chi proveniva da Paesi arabi o musulmani.

Un dato che non può passare inosservato dopo gli attacchi di Parigi e Bruxelles.

Fonte: linkiesta.it | Autore: Gianni Balduzzi

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