Caricature e flash mob: la comunicazione è un gioco

Caricature e flash mob: la comunicazione è un gioco

25/09/2013 – Per lo “Spin Factor” Aldo Tanchis, consigliere per la comunicazione di Massimo Zedda, racconta la campagna elettorale di Cagliari: «Si deve sempre partire dalla personalità del candidato»
Caricature e flash mob: la comunicazione è un gioco
1. Le strategie nascono dallo scenario della campagna elettorale. Ci può spiegare qual era il contesto in cui è nata l’elaborazione della campagna e quali sono le linee strategiche che avete adottato?
Eravamo nella tipica (e vantaggiosa) situazione di outsider. Massimo Zedda combatteva alle primarie contro un pezzo da novanta del Pd e della politica regionale, Antonello Cabras. Non c’era storia, in apparenza. Chiesi a Massimo, quando mi coinvolse nella campagna, se pensava di avere qualche possibilità o se si trattava di una candidatura di testimonianza. Lui rispose che era convinto di potercela fare. In quel momento il Pd sardo era in difficoltà ma il divario tra loro e Sel  appariva tanto grande da non consentire speranze di sorta. Il quadro generale sembrava deteriorato al massimo in campo politico, il sentimento diffuso era quello di una richiesta di cambiamento.
2. Claim, payoff, visual: come sono nate le vostre scelte?
Lo slogan “Ora tocca a noi” nacque pensando alla necessità del ricambio e alla possibilità che la figura di Zedda potesse incarnarlo, soprattutto se avessimo giocato su un NOI collettivo, allargato, che coinvolgesse per le primarie anche il “popolo” Pd, stanco dei suoi leader regionali. Per le primarie non avemmo neanche il tempo di scattare una foto di Massimo. Quando lavoriamo su un candidato – come ci è successo per esempio per Pisapia o per Soru nel 2004 – partiamo sempre dalla sua personalità, mai da un progetto astratto. Il candidato incarna il progetto, non il contrario, ovviamente.
Scegliemmo una grafica molto fresca, giocata sul rosso e il blu di Cagliari, anche se alleggeriti e in sostanza su un mood di novità, il più possibile lontano dalla vecchia politica. In sostanza stavamo dicendo: «I vecchi leader hanno con ogni evidenza fallito. Basta. Ora tocca a noi, tocca ha chi ha energie, freschezza, vivacità e non è compromesso col vecchio sistema…». Tutto questo anche se Massimo in realtà era già un navigato politico! Il candidato del Pd decise di non aspettare il risultato delle primarie a Cagliari ma andò negli Usa per un impegno istituzionale, credo, e là venne raggiunto dalla notizia della clamorosa sconfitta.
3. Quanti voti sposta il web? E, nel vostro caso, come lo avete utilizzato in campagna elettorale? Quali strategie avete adottato nei social media?
Allora il web era ancora una discreta novità, in politica. La giovane età di Zedda ci permetteva di puntare parecchio sulla rete. Chiedemmo la collaborazione di tutta la sinistra. Il regista Enrico Pau, per esempio, produsse delle esilaranti caricature del candidato avversario che furono cliccatissime ma soprattutto contribuirono a motivare i volontari che facevano campagna per noi. Sicuramente il web riuscì a mobilitarne parecchi, e questo fu evidente quando confrontavamo i clik tra i nostri video e quelli dell’avversario, che fece addirittura nascere una web tv che però nessuno andava a vedere. Iflash mob, poi, sono stata una parte importante perché innovativa, creativa, ludica. Tanto da essere stata poi “esportata” a Milano per la campagna di Pisapia e più recentemente ad Alghero, per un’altra campagna comunale vinta.
4. Qual è stato il momento clou della campagna elettorale dietro le quinte?
C’è un momento quasi magico, nelle campagna elettorali, nel quale capisci che sei riuscito a far partire una massa di persone che faranno campagna per te: se questo non avviene, o avviene in modo insufficiente, la valanga si ferma subito. Ma se parte (penso anche all’esperienza con Pisapia) allora diventa inarrestabile. Collegato a questo, c’è un altro momento magico: quando il candidato stesso si trasforma, si convince intimamente che può e che vuole vincere (e anche questo non è scontato).
5. Che consiglio avrebbe dato all’avversario di Zedda, Massimo Fantola, se avesse lavorato per la sua campagna?
La sua coalizione sulla carta era da 60 per cento, se non di più. Anche Fantola era un “nuovo” candidato per la carica di sindaco, ma questa “novità” non è mai realmente uscita in campagna. E’ sempre stato visto come uno mandato avanti dal gruppo di famiglie che tradizionalmente ha governato Cagliari. Sicuramente l’avrei mandato da un ottimo fotografo, come abbiamo fatto noi: lo scatto di Daniela Zedda ha tirato fuori da Massimo Zedda la gioventù, la bellezza, la disponibilità. Quella di Fantola era quasi una caricatura. A parte questo, avrebbe avuto bisogno di almeno una proposta forte, unica, tipo il «Teniamo in Lombardia il 75% delle tasse» di Maroni.
6. Da quante persone era composta la war room della campagna elettorale? Quali competenze erano presenti nello staff?
Oltre alla mia agenzia, com.unico, venne coinvolta Be Tools di Cagliari con Barbara Argiolas coordinatrice e organizzatrice della campagna, e FXStudio, agenzia web di Cagliari di PierFrancesco Borghero che curava anche la fondamentale parte produttiva. Insieme, una quindicina di giovani attivissimi, che faceva capo al Circolo di via Puccini, più  un paio di persone fidatissime di Zedda, giovani come lui.
7. La campagna perfetta non esiste: tornando indietro, ci sono scelte che non rifarebbe?
Come dice un mio amico, «per uno che applaude, 99 prendono la mira». Ci spararono addosso in parecchi, soprattutto quando aprimmo la campagna contro Fantola scrivendo «Ora tocca a tutte le Cagliari che ci sono». Volevamo conquistare almeno il 50,1 per cento  dei consensi e quello fu il primo segnale verso commercianti, impiegati statali e le altre aree che costituivano il serbatoio tradizionale del centro-destra. Forse sopravvalutammo le nostre forze, infatti il tentativo di dialogare con i quartieri per far nascere ulteriore volontariato non riuscì come avremmo voluto. Ma alla chiusura della campagna c’era un mare di gente.
8. Quali sono i modelli, le buone pratiche a cui vi siete ispirati in campagna elettorale?
Una campagna elettorale non è una normale campagna pubblicitaria. Trovo inutile ispirarsi a Obama, buttarsi sul web, circondarsi di intellettuali… E’ qualcosa che sta a metà, ed è questo il motivo per cui si vedono campagne elettorali fatte da professionisti pubblicitari meno efficaci di quelle dei “rozzi” comunicatori elettorali. Le devi trattare in modo differente. Noi abbiamo sviluppato una certa modellizzazione ma è importante che sia molto aperta perché ogni candidato, è diverso e particolare, così come ogni città. La cosa fondamentale, ripeto, è la conoscenza e il rispetto dell’identità del candidato, oltre che la conoscenza della situazione cittadina. Se vuoi far diventare simpatica e alla mano Letizia Moratti, come provarono a fare contro Pisapia – sei condannato a perdere perché è contro-natura (con tutto il rispetto per la signora Moratti). Non credo che la Thatcher potesse far campagna cercando di far venir fuori il suo lato umano. A Milano spesero non so quanti soldi per il fotografo ma quella bonaria signora sui manifesti non somigliava neanche lontanamente alla Moratti. Io avrei cercato di far passare un messaggio del genere «Non sarà simpatica, ma è efficiente, capace ecc.». Quella volta furono loro ad essere presi da un attacco di tafazzismo.
Autore: Giovanni Diamanti | Fonte: europaquotidiano.it

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